mercoledì 27 febbraio 2013

Essere madre è un lavoro. Quindi l'altro come lo chiamo.

Quando lavoravo da dipendente, se la bimba si ammalava, mia madre (da 200 km di distanza) si preoccupava immediatamente:
"e come fai?"
"Come vuoi che faccia, provo con la babysitter, alla peggio uso ferie"
"Eh, attenta a non esagerare"

Sai, l'atavico senso del dovere di stampo cattolico.

Se mi ammalavo io: "vengo subito a badare alla bimba".

Da quando lavoro in proprio e ho due figli i soldi per la babysitter non ci sono e le ferie non me le paga nessuno. Semplicemente perdo il lavoro.

Di fronte al mio sconforto per la stringa infinita di malanni a catena (c'è sempre qualcuno in cura per qualcosa tra ottobre e maggio) le reazioni di mia madre si evolvono nel seguente modo:
"Mi sembra si stiano ammalando (i bimbi)" [aka la profezia]
"Gli hai provato la febbre?"
"Poverini (i bimbi)" [quando infine si ammalano]
"Riguardati così puoi curarli"
"Se hai bisogno con i bimbi chiamami" [salvo diventare impaziente quando la febbre mi scende sotto 38, punto nel quale, apparentemente, perdo il diritto all'assistenza]
"Saranno ben più importanti i bimbi del lavoro"

La colpa è soprattutto mia. Risale tutto a quando incautamente ho affermato di mettermi in proprio per provare a costruirmi una professione che valorizzasse le mie capacità e i miei interessi. Peccato di egoismo.

In fondo, se non hai un impiego a tempo indeterminato la tua missione nella vita dovrebbe essere curarti dei tuoi figli.

E la cosa con cui pago i conti come la chiamiamo? Marchetta?!